La letteratura non è politica e non è sociale. O sì?
Di letteratura, politica e contesto sociale. Un'analisi per natura colma di sproporzionata soggettività, passione e interesse economico
Non si scrive ciò che si vuole. Maxime scrive ciò che vuole, più o meno. Ma quello non è scrivere.
Flaubert diceva così del suo amico e scrittore Maxime Du Camp, e forse voleva dire che scrivere ciò che si vuole equivale a non scrivere per davvero letteratura, ma al massimo una sua imitazione, una mimesi privata di quell’atto misterioso e inconscio che guida la mano di chi scrive, sempre immersa e influenzata da ciò che la circonda. Se tu scrivi davvero, dunque, non scrivi ciò che vuoi o, per lo meno mi verrebbe da aggiungere, non scrivi solo ciò che vuoi, ma anche quello che non sai di voler scrivere o che non sai di pensare, anche quello che ti hanno insegnato, che hai sperimentato, sofferto, amato. Scrivi, insomma, anche di ciò in cui sei immersa o che ti circonda. Se non lo fai, imponendo alla penna una razionalità intonsa (che, diciamocelo, è irraggiungibile), allora non stai scrivendo davvero.
Non a caso, Pierre Bourdieu[1] pone questa stessa citazione in esergo a Le regole dell’arte (1992) tradotto nel 2005 da Anna Boschetti e da Emanuele Bottaro per il Saggiatore, e ripubblicato dalla stessa casa editrice nel 2022[2]. “La sociologia e la letteratura non vanno molto d’accordo e non penso, contrariamente alle apparenze, che la colpa sia della sociologia” dice Bourdieu, e la sua ricerca – che ha incontrato molte critiche – mira a un approccio alla letteratura che possa sfociare in una teoria sistemica ma, al contempo, nemica delle sistematizzazioni della cosiddetta “filosofia sociale”.[3] Bourdieu, in parole semplici, cerca di verificare le “regole” della letteratura come scienza sociale, basandosi sulla prova empirica e sulla ricerca epistemologica, ovvero delle condizioni e dei metodi necessari a rendere una qualsiasi conoscenza una conoscenza “scientifica”, e quindi poterla definire tale.
Suppongo sia per questo che gli studi di letteratura, e chi scrive in particolare, rifiutino le incursioni della sociologia “disciplina massimamente sospetta ai loro occhi, soprattutto se non si limita a occuparsi del mercato culturale ma ambisce a fondare una scienza capace di spiegare le proprietà tecniche delle opere e il modo in cui sono recepite” leggiamo nell’introduzione all’edizione italiana delle Regole dell’arte.
Di letteratura e politica, o di letteratura e contesto sociale (che poi dividerli non si può proprio), si parla di frequente ma in maniera spesso superficiale, come di tutti quegli argomenti che posseggono una dose ingestibile e per natura sproporzionata di soggettività, passione e interesse economico. Eppure, per arrivare a, non dico rispondere, ma almeno argomentare questa discussione, bisognerebbe farsi un’altra domanda. E Sartre l’ha già posta egregiamente:
E poiché i critici mi condannano in nome della letteratura senza dire mai che cosa intendano per letteratura, la risposta migliore sarà di esaminare l’arte di scrivere senza pregiudizi. Che cos’è scrivere? Perché si scrive? Per chi? In realtà pare che nessuno se lo sia mai chiesto.[4]
Oggi, invece, questa domanda riempie la bocca dei fuffaguru, di chi ti vuole vendere il pacchetto all inclusive da-manoscritto-nel-cassetto-a-libro-più-venduto-dell’anno. Sorvolando gioiosamente sull’aspetto prettamente promozionale (che ha comunque una grande rilevanza che non nego, ma che qui non affronterò), a chiedersi “perché scrivo?” basta un attimo. E la risposta, la risposta diciamo profonda, alta, onorevole (ma è onorevole rispondere anche perché mi piace o perché voglio diventare ricca e famosa), dovrebbe riguardare, in un modo o nell’altro, un bisogno, una necessità. Quando è davvero forte, un’ossessione.
Sempre in Che cos’è la letteratura? Sartre scrive:
Non abbiamo forse l’abitudine di porre a tutti quei giovani che si propongono di scrivere la domanda fondamentale: «Avete qualcosa da dire?» con la quale si intende: qualcosa che valga la pena di essere comunicato. Ma come si fa a capire ciò che «vale la pena» se non ricorrendo ad un sistema trascendente di valori? […] Così il prosatore è un uomo[persona, n.d.r.] che ha scelto un certo modo d’azione secondaria che si potrebbe chiamare l’azione per rivelazione. È quindi legittimo porgli questa seconda domanda: che aspetto del mondo vuoi svelare, quale cambiamento vuoi apportare al mondo con questa rivelazione? Lo scrittore «impegnato» sa che la parola è azione: sa che svelare è cambiare, e che non si può svelare se non progettando di cambiare.
E di scrittori “impegnati” o presunti tali anche la narrativa contemporanea abbonda, italiana ed estera. Va benissimo, insomma, dichiarare apertamente di voler apportare qualche sorta di cambiamento, di voler lasciare un segno, scagliare una pietra, lanciare una provocazione (che il risultato sia modesto o meno, per ciò che ci riguarda qui, non importa). Il dubbio, il tranello anzi, però, arriva quando la risposta (o l’analisi dei romanzi pubblicati) si definisce estranea a qualsiasi coinvolgimento morale, a qualsiasi posizione valoriale, politica, sociale, di privilegio o di svantaggio o a qualsiasi riferimento esperienziale. Peggio, anche, quando alcune scuole di scrittura impongono una visione stereotipata o totalmente schiava di regole, tecniche, approcci, focalizzazioni, narratori, descrizioni e così via. E ciò che ne viene fuori, nella migliore delle ipotesi, è una trama con bei colpi di scena, ma fatalmente priva di una storia.[5]
Massimo Onofri, in La modernità infelice[6] afferma: “Contro uno dei più tenaci luoghi comuni della teoria letteraria […] che cioè la letteratura parli sempre e solo di se stessa, si continua a credere qui che la lettura e la storiografia possano e sappiano invece ancora parlare del mondo.”
Che sia chiaro: possano e sappiano, non debbano. Per lo meno, è certo che non lo deve la narrativa di intrattenimento. Qui scendiamo però in terreni accidentati e per certi versi pericolosi, (altissimo rischio di critiche feroci o fraintendimenti), quelli della distinzione tra narrativa e letteratura (o tra narrativa letteraria e narrativa di genere, ma quest’ultima è ancora più fuorviante), una distinzione che noi vogliamo di forma e di sostanza dell’opera, ma che spesso, ad oggi, appartiene unicamente al mercato, e ad esso serve.[7]
Tornando a noi, quando mettiamo le mani sulla tastiera nessuno ci impone di essere “impegnate” o di dover per forza trasmettere un messaggio, una morale, validare o invalidare una posizione politica. Non è di certo compito di chi scrive dettar legge o esprimersi in qualsivoglia modo sulla società… tuttavia, il fatto che questo avvenga comunque è un discorso che non possiamo ignorare. Non possiamo ignorare, per l’appunto, che ogni narrazione[8] si rivolge a qualcuno (si scrive e si pubblica per essere letti, non mentiamo), e che quel qualcuno, auspicabilmente, ne trae qualcosa. Potrebbe essere solo intrattenimento (ma è mai davvero solo intrattenimento? Anche il più demenziale dei libri, la più imbarazzante delle serie tv ci condiziona in qualche modo), oppure potrebbe essere una scintilla di curiosità per un tema affrontato, un cambio di prospettiva politica, a volte anche radicale; una scoperta storica, passata o presente, oppure il seme di una passione. Il recente trend dei “libri che mi hanno cambiata” o “libri che mi hanno formata” non ha nulla di impreciso, a mio parere; al contrario, evidenzia un aspetto che passa spesso in sordina, ovvero l’importanza dei romanzi, e in generale delle narrazioni, nella nostra crescita e formazione come individui sociali e parte attiva di un sistema culturale. Per questo, tornando alle mani sulla tastiera, forse chiedersi quali temi, quali valori, quali posizioni vogliamo assumere sugli argomenti che affrontiamo nella nostra storia non è una pessima idea. E, aggiungo, anche domandarsi da quale punto di vista privilegiato o meno stiamo raccontando e a chi vogliamo rivolgerci mentre lo facciamo.
Attenzione, però, questo non significa in alcun modo censurarsi, fare matte e disperatissime ricerche di mercato, privilegiandole a discapito di ciò che vogliamo dire noi, o auto imporsi una sensibilità che non ci appartiene. Natalia Ginzburg[9] ammoniva i giovani scrittori ricordando loro che le parole provengono da dentro, da ciò che ci appartiene, e che andarle a cercare all’infuori di noi è un trucco, una menzogna. È, in definitiva, disonesto. Ecco, lo stesso ragionamento possiamo applicarlo ai temi, alla presenza o meno di una posizione sociale e politica che traspare dalle nostre storie e dai nostri valori, se ne mostriamo. Se è vero che non dobbiamo essere scrittrici impegnate, è vero anche che, per parlare di scrittura, dobbiamo avere qualcosa da dire, qualcosa in cui crediamo e che vogliamo venga recepito e ascoltato da chi ci legge.
Entrando un po’ più nello specifico, Fredric Jameson[10] definisce la fantascienza come “l’inconscio politico della nostra cultura”. Non deve sorprenderci notare come scrittori e scrittrici di genere, in particolare del genera fantastico, abbiano da sempre spaziato con maggior coraggio e libertà in temi disturbanti, fortemente discussi in ambito politico e sociale, culturale, militare ecc. Forse perché “protetti” dalla struttura necessaria alla narrazione fantastica e dall’estremizzazione della “finzione”, percepita anche meno pericolosa o divisiva o relegata all’ambito della narrativa di intrattenimento o per l’infanzia (come se non fosse il punto più critico di influenza dell’individuo!). Il genere fantastico (che include la narrativa fantasy e di fantascienza) e il distopico offrono un’opportunità unica: creare una società a partire da zero (o quasi). Inventarsi gerarchie, leggi, punizioni, privilegi, caste, categorie sociali, etnie, razze, poteri; nuovi limiti, barriere, aperture, confini, divisioni e comunità. Ma, dicevo, partendo quasi da zero. Quasi perché l’invenzione dal nulla è una menzogna, e tutto ciò di cui scriviamo, se lo facciamo in maniera onesta, è, in un modo o nell’altro, legato a ciò che sperimentiamo nel corso della vita. Quasi perché se scriviamo un romanzo fantasy che racconta di una ghettizzazione, dell’esclusione di un popolo o di una razza; di una tirannia, di una democrazia falsata e compromessa o di un sistema sociale marcio stiamo criticando la nostra società, passata e presente e, quando lo facciamo ancora meglio di quanto sia già richiesto, stiamo criticando anche la sua direzione futura.
Voglio essere banale e nominare: 1984 di George Orwell; Fahrenheit 451 di Ray Bradbury; La saga di Terramare di Ursula K. Le Guin che affronta tematiche legate al colonialismo, al sessismo, alla responsabilità del potere (tema fortemente centrale nel genere); La quinta stagione di N.K. Jemisin (prima parte della trilogia La Terra spezzata) che riflette sull’oppressione razziale, sulle disuguaglianze e sulla crisi climatica; La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead (Pulitzer 2017) che reinventa la storia della schiavitù negli USA. Per non parlare del Signore degli Anelli o della saga di Harry Potter. Sul Signore degli Anelli è interessante sottolineare come fino agli inizi del 2000 fosse un titoli “sfruttato” in Italia per mostrare la propria posizione politica. In Leggo dunque sono[11] Pietro Dorfles, parlando dei libri come status symbol scrive che “… [il] ciclo dell’Anello di Tolkien è stato per anni la lettura privilegiata dai giovani di destra. Trovarlo in uno scaffale domestico rappresentava un segno inconfondibile di appartenenza ideologica”.
Di opere che appartengono alla sfera del fantastico e che mostrano una feroce critica sociale, una demisticizzazione di alcuni periodi storici e pratiche, nonché un grande trauma generazionale ne ho parlato anche in riferimento al romanzo di Mariana Enriquez, La nostra parte di notte.
Un altro grande capitolo lo potremmo affrontare parlando della censura e ponendoci una semplice domanda: se la letteratura non ha (e non dovrebbe avere) nulla di politico e nulla a che fare con la società, a che pro censurarla? Su questo argomento, che è vastissimo, vi rimando a un titolo delle Edizioni Santa Caterina del Master in Editoria dell’Università di Pavia, Inchiostro proibito. Libri censurati nell’Italia contemporanea, autori vari QUI, e all’egregio lavoro Sapienza Editrice Contesti, forme e riflessi della censura, visionabile QUI.
Per chiudere, e poi mi taccio: il continuo affermare, dunque, che la letteratura non abbia niente a che fare con la politica e con la società mi sembra un’ignorante ostinazione o un inconsapevole analfabetismo culturale (in casi estremi, anche una presa di posizione truffaldina allo scopo di venderti qualcosa), che alimenta una visione miope della letteratura, o narrativa, chiamiamola come ci pare, rendendola pericolosamente priva di una posizione, fluttuante nell’infinito cosmo di prodotti culturali entro il quale cerchiamo di trovare un angolo (o più di uno) al quale appartenere.
Perché il tema è anche questo: la letteratura dovrebbe rispecchiarci. E lo fa, anche inconsapevolmente o involontariamente, che ci piaccia o meno il modo in cui riflette la nostra società, le nostre generazioni, la nostra cultura e la politica dei nostri Paesi. Ma la letteratura non fa solo questo, lo dice con le sue sempre straordinarie parole Azar Nafisi:[12]
Le storie, lungi dall’essere semplici voli della fantasia o strumenti del potere politico, ci ricollegano al nostro passato, ci offrono una chiave critica per comprendere il presente, ci permettono di concepire un futuro diverso, di vedere la nostra vita non solo così com’è, ma anche come dovrebbe o potrebbe essere.
Come sempre, nelle note qui sotto (che sono in pratica un altro articolo) trovate la bibliografia che ho scartabellato per questo articolo e qualche altro piccolo approfondimento o curiosità.
Vorrei sapere anche la vostra! La letteratura non è politica e non è sociale. O sì?
A presto,
G.
[1] Pierre Bourdieu 1930-2002, è stato un sociologo e antropologo francese. Il suo pensiero ha influenzato gran parte delle scienze sociali del secondo dopoguerra, in particolare la sua visione deterministica (tutto accade per rapporti di causa ed effetto e mai per caso) del quadro sociale. Per Wacquant, uno dei suoi studenti più famosi, Bourdieu è stato un “enigma intellettuale”, a causa degli accesi dibattiti che suscitarono e suscitano tutt’oggi i suoi studi, soprattutto in tema di educazione.
[2] Le regole dell’arte, Pierre Bourdieu, Il Saggiatore, 2022 - QUI
[3] Filosofia sociale. Lo studio, a livello filosofico, dei comportamenti di livello sociale e dei rapporti tra gli individui. Comprende lo studio dei contratti sociali, della legittimità legislativa, delle dinamiche delle folle e delle autorità. E di molti altri rapporti, tanti che mi chiedo perché ci si ostini a categorizzare categorie già categorizzate.
[4]Che cos’è la letteratura? Lo scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, J.P. Sartre, Il Saggiatore, 2009 - QUI
[5] “Trama” e “Storia” non sono sinonimi. La storia contiene una trama, ma contiene anche altri elementi che per semplicità definiamo minimamente con questi termini: trama, appunto, personaggi, atmosfera e stile.
[6] La modernità infelice, Massimo Onofri, Avagliano, 2003 (vi rimando QUI, ma il titolo non è disponibile su IBS, cercate all’usate se vi interessa). Massimo Onfri, per completezza, è critico letterario, saggista e docente di letteratura all’Università di Sassari. Redattore di Nuovi Argomenti, collabora con L’indice dei libri del mese, La Stampa, Avvenire e altre testate.
[7] Per evitare un buon numero di accuse in merito alla distinzione tra letteratura e narrativa, riporto in breve le due definizioni date dall’Enciclopedia Treccani, fedele compagna delle mie avventure editoriali.
Letteratura: in origine, l’arte di leggere e scrivere; poi, la conoscenza di ciò che è stato affidato alla scrittura, quindi cultura, dottrina. Oggi s’intende comunemente per l. l’insieme delle opere affidate alla scrittura, che si propongano fini estetici, o, pur non proponendoseli, li raggiungano comunque; e, con significato più astratto, l’attività intellettuale volta allo studio o all’analisi di tali opere. Narrativa: Genere letterario che comprende, in senso ampio, tutti i testi di carattere narrativo (dalla fiaba, alla biografia, al poema), ma comunemente circoscritto ai soli testi in prosa d’invenzione come il racconto, la novella, il romanzo (con esclusione quindi dei testi saggistici, storiografici, ecc.). Con il termine si intende anche il complesso delle opere narrative di una lingua o letteratura, di un periodo, di un movimento o di un gusto letterario, e anche le opere di un singolo autore, o la sua arte narrativa.
È chiaro, dunque, che una vera distinzione, come la si intende spesso oggi in ambito editoriale e che pone l’accento sulla “qualità” dell’opera (se è letteraria è più alta, se è narrativa lo è meno, o comunque ha uno scopo più basso, spesso detto “di intrattenimento”), non esiste. Anzi, potrei azzardarmi a dire che si tratta l’una del contenitore dell’altra.
[8] In merito alla narrativa in cui siamo “immerse”. Qui parlo solo di libri, ma non posso esimermi dal dire che le narrazioni influenzano qualsiasi ambito della nostra società, dai film alle serie tv, dalle pubblicità agli articoli di giornale, dai programmi di intrattenimento a quelli di approfondimento.
[9] Natalia Ginzburg, nel saggio Il mio mestiere contenuto nella raccolta Le piccole virtù, pubblicata da Einaudi QUI
[10] Sulla teoria che la fantascienza rispecchi la politica. In L’inconscio politico, Garzanti, 1990 QUI. Per completezza, Fredric Jameson, scomparso lo scorso settembre, è stato uno tra i più importanti critici letterari statunitensi, conosciuto soprattutto per il suo approccio allo studio della letteratura sotto l’influenza del capitalismo.
[11] Leggo dunque sono. Almeno credo. Paolo di Paolo, Pietro Dorfles, Lella Mazzoli. Aras Edizioni, QUI.
[12] La repubblica dell’immaginazione, Azar Nafisi, Adelphi, QUI. Per completezza, Azar Nafisi è una scrittrice, saggista e docente iraniana. Conosciutissimo il suo splendido Leggere Lolita a Teheran QUI.
In questo articolo ci sono così tanti pezzi di discussione che faccio fatica ad accettare di essere breve! Substack ci viene in aiuto, nel nostro essere prolissi, ma proverò a dire la mia e quindi ad arricchire il dibattito.
La letteratura, e quindi anche la narrativa, è implicitamente politica. Assolutamente vero.
Anche chi non segue la politica e si definisce a-partirico ha comunque una sua ideologia che può essere condivisa in alcuni punti dalla destra e in altre dalla sinistra. È inevitabile per tutte le persone che hanno un minimo di pensiero critico. Poi, per carità, se nessun partito ti rispecchia appeno ci sta, né mi stupirebbe dato il nostro magnifico Paese.
Quindi la letteratura è politica. Bravura dell'autore è non fartelo capire: più volte mi sono esposto dicendo che ogni libro è un dialogo, e l'unico compito del lettore è trovarci qualcosa. Di qualsiasi natura, beninteso. Certo, se quel qualcosa coincide con quello che voleva l'autore, tanto meglio. Se invece ci trova altro, io Autore mi farei due domande o farei due domande al mio lettore.
Seconda domanda: rapporto tra letteratura e sociologia. Ecco la mia idea, che sta nel dire che studiare il mercato, le tendenze e quello che dicono quelli bravi che tengono i corsi e "si sono fatti un nome" è già di per sé sociologia. Pensiamo anche solo a tutte le volte che abbiamo detto "il lettore sta perdendo la soglia dell'attenzione di anno in anno", e quindi i libri devono adeguarsi.
Non è forse sociologia, questa? Io dico di sì, perché chiunque ha un po' di pensiero critico vuole chiedersi perché questa soglia dell'attenzione cala e come può porvi rimedio.
Sì, ho detto porvi rimedio. La lettura deve essere un piacere "lento", per essere gustato. Anzi, io sono ancora più radicale perché dico che tu devi ricordarti tutti i libri che leggi. Se non li ricordi, qualcosa non va nel libro oppure lo hai letto troppo in fretta.
Però ecco, questo piccolo esempio si propone come un piccolo tassello della realtà sociologica in cui siamo... IMMERSI.
Non trovi?
Non so se condivido tutto, ma di certo c'è che la tua riflessione é molto interessante